La Sentenza 371/10, depositata il 29 novembre 2011, che in questa sede ci si propone di commentare brevemente, traccia taluni principi di indubbio interesse, soprattutto se letta alla luce di quanto stabilito dalla normativa italiana (articolo 166 del D.p.R. 917 del 1986 – Testo Unico delle Imposte sui Redditi).
La tematica in commento, naturalmente, non riguarda la prevalenza delle società italiane, ma riveste notevole rilievo per tutti i gruppi che operano a livello internazionale.
La norma italiana (articolo 166 del Tuir) stabilisce che laddove un’impresa trasferisca all’estero la propria residenza e detto trasferimento comporti la perdita della residenza ai fini delle imposte sui redditi, pone in essere un’operazione tale da costituire “realizzo, al valore normale, dei componenti dell’azienda o del complesso aziendale, salvo che gli stessi non siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello stato”.
In sostanza, il trasferimento di sede all’estero che comporti la perdita della residenza integra una fattispecie realizzativa, al momento del trasferimento stesso, con assoggettamento immediato a tassazione delle plusvalenze latenti. Da un punto di vista finanziario, pertanto, è evidente che nel pianificare un trasferimento di sede transfrontaliero di una società italiana, il gruppo multinazionale deve porre grande attenzione all’entità delle plusvalenze latenti sui propri asset, dovendo l’operazione necessariamente “fare i conti” con gli esborsi finanziari derivanti dall’imposizione relativa al realizzo delle plusvalenze stesse.
Peraltro, tale exit tax non è contemplata dal solo ordinamento interno italiano, essendo al contrario prevista da molti altri stati membri. Anche alla luce di tale considerazione, pertanto, la Sentenza in commento assume particolare rilievo.
I giudici europei, al di là del caso preso ad esame che nella fattispecie prevedeva il trasferimento di sede amministrativa dai Paesi Bassi al Regno Unito e l’asset potenzialmente plusvalente era costituito da un solo credito in sterline inglesi, definiscono alcuni importanti principi, di seguito esposti.
In primo luogo, i giudici comunitari analizzano la questione, naturalmente su istanza delle parti, alla luce di quanto previsto dall’articolo 49 del Trattato dell’Unione Europea relativamente al principio di libertà di stabilimento (norma inquadrata nel capo secondo – Diritto di stabilimento del TFUE - Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea). Tale norma dispone che “Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro.
La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.”
Un principio molto ampio, dunque, da coniugare poi con le istanze concrete, date dalle esigenze dei diversi Stati membri di evitare salti d’imposta potenzialmente derivanti da una libertà di stabilimento non correttamente gestita, nonché con le esigenze degli operatori economici di poter organizzare secondo logiche imprenditoriali l’allocazione del gruppo o dell’impresa.
Dopo aver sviluppato un ampio ragionamento, con dovizioso richiamo di precedenti pronunce della Corte stessa, il primo principio definito dai giudici comunitari è che “una società costituita secondo il diritto di uno Stato membro, che trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva, senza che tale trasferimento di sede incida sul suo status di società del primo Stato membro, può invocare l’art. 49 TFUE al fine di mettere in discussione la legittimità di un'imposta ad essa applicata dal primo Stato membro in occasione di tale trasferimento di sede.”
L’exit tax, pertanto, a detta dei giudici comunitari costituisce o può costituire una limitazione della libertà di stabilimento. Il costante insegnamento della Corte ammette detta limitazione, a condizione, tuttavia, che essa sia “giustificata da motivi imperativi di interesse generale. Anche in tale ipotesi, però, la sua applicazione dovrebbe essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo in tal modo perseguito e non eccedere quanto necessario per raggiungerlo[1]”. In tale senso il ragionamento dei giudici europei prosegue fino a stabilire, in linea con le conclusioni dell’Avvocato Generale, che la determinazione dell’importo della plusvalenza da assoggettare a tassazione debba avvenire al momento del trasferimento e che ciò non confligga con i principi comunitari, tra cui quello di libertà di stabilimento.
L’aspetto su cui la sentenza si rivela del tutto innovativa e dagli effetti potenzialmente dirompenti è invece l’ultimo degli aspetti trattati, vale a dire quello connesso al momento in cui la riscossione della “tassa di uscita” debba avvenire.
La società ricorrente ha sostenuto, nei propri scritti difensivi, che la riscossione al momento del trasferimento della sede sarebbe “sproporzionata”, mentre la sua riscossione al momento dell’effettivo realizzo delle plusvalenze, quindi nello stato ospitante, costituirebbe “forma meno coercitiva rispetto alla riscossione immediata”.
Sul punto la Commissione, del tutto allineata al contribuente, aggiunge che l’onere amministrativo per le autorità fiscali coinvolte connesso alla riscossione differita non sarebbe eccessivo. Sposando tale posizione, in completata antitesi rispetto ai dieci stati membri che hanno depositato le loro memorie (a conferma della rilevanza della questione e tra questi figura l’Italia), la Corte di Giustizia ha ribadito come non solo l’onere amministrativo connesso alla riscossione differita non sarebbe eccessivo, ma ha anche proposto una soluzione di carattere operativo: sarebbe sufficiente che il contribuente allegasse alla dichiarazione dei redditi presentata nel Paese ospitante negli anni successivi al trasferimento con cui dichiarasse quali beni oggetto dell’azienda trasferita siano nel frattempo stati alienati; solo in quel momento, proporzionalmente agli asset ceduti, verrebbe ad essere incassata dallo Stato di origine l’imposta di uscita, nella misura determinata al momento originario del trasferimento.
Nello svolgere le proprie argomentazioni, la Corte esclude esplicitamente che tale procedura possa comportare rischi circa l’effettiva riscossione del credito (qualora il contribuente optasse per la riscossione differita potrebbe / dovrebbe presentare idonee garanzie di carattere bancario), aggiungendo inoltre che la (relativamente) recente “direttiva del Consiglio 26 maggio 2008, 2008/55/ CE, sull’assistenza reciproca in materia di recupero dei crediti risultanti da taluni contributi, dazi, imposte ed altre misure (GU L 150, pag. 28), dispone che «[l]’autorità adita fornisce all’autorità richiedente, su sua richiesta, tutte le informazioni utili per il recupero del credito». Tale direttiva consente quindi allo Stato membro di provenienza di ottenere dalla competente autorità dello Stato membro ospitante informazioni relative al realizzo o al mancato realizzo di taluni elementi dell’attivo di una società che abbia trasferito la propria sede amministrativa effettiva in quest’ultimo Stato membro, nei limiti in cui esse siano necessarie al fine di consentire allo Stato membro di provenienza di riscuotere un credito fiscale originato al momento di tale trasferimento di sede.” A chiosa della Sentenza, i giudici scrivono esplicitamente che una norma, come quella italiana recata dall’articolo 166 del TUIR, che imponga una exit tax al momento del trasferimento, si pone in esplicito contrasto con quanto disposto dall’articolo 49 del Trattato.
A questo punto sembra legittimo ritenere che anche l’Amministrazione Finanziaria italiana e, ancor prima, il Legislatore nazionale debbano in qualche modo rivedere i contenuti o l’applicazione della norma interna in materia. È interessante notare come a livello di autorevole dottrina nazionale già in data 1 marzo 2009[2] sia stata presentata una denuncia alla Commissione europea in merito al presunto contrasto del predetto articolo 166 del Tuir rispetto alle disposizioni comunitarie, peraltro con argomentazioni che si ritrovano, ikn gran parte, nella sentenza commentata[3].
In conclusione, è possibile ritenere che la Sentenza 371/2011 possa dare spazio ad allocazioni di imprese nell’ambito comunitario scevre da limitazioni di carattere fiscale, contribuendo in modo significativo alla creazione di una effettiva e più completa libertà di movimento e stabilimento all’interno dell’Unione Europea.
[1] (sentenze 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer, Racc. pag. I-10837, punto 35; 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, Racc. pag. I-7995, punto 47; 13 marzo 2007, causa C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, Racc. pag. I-2107, punto 64, nonché 18 giugno 2009, causa C-303/07, Aberdeen Property Fininvest Alpha, Racc. pag. I-5145, punto 57).
[2] Denuncia Associazione Italiana Dottori Commercialisti n. 5 del 1 marzo 2009 n. 5 Illegittimità comunitaria della tassazione sul traferimento della residenza in altro paese comunitario da parte di soggetti che esercitano imprese commerciali (cd. Exit Tax)(come prevista dall'art. 166 del D.P.R. n. 917/1986.
[3] L’Amministrazione Finanziaria italiana è al momento assolutamente irremovibile nel ritenere che l’exit tax vada corrisposta al momento del trasferimento di sede, del resto coerente con il dettato normativo domestico – Risoluzione Ministeriale 30 ottobre 2008, n. 409.
a cura di:
dott. Franco Di Ciaula
pubblicato su:
C&S Informa, volume 12, numero 10 anno 2011