In questo periodo caratterizzato da tensioni finanziarie per numerose aziende operanti nel nostro contesto geografico ed economico di riferimento, acuite dagli effetti dell’adozione, intervenuta nel corso del 2009, dei sistemi IRB da parte delle più grandi banche italiane nei processi di quantificazione del rischio e dei relativi premi, ci si chiede spesso, a tutti i livelli ed in ogni specifico contesto, quale possa essere il corretto prezzo di mercato del credito.
Tale variante, infatti, incide fortemente ed in misura diversa secondo le specificità del soggetto finanziato: in situazioni di continuità o di sviluppo, sulle più importanti scelte strategiche d’investimento; in situazioni di crisi, sulla tenuta prospettica dei piani di risanamento aziendale.
Ebbene, rispondere correttamente a tale domanda, in questo momento storico, credo sia impossibile per il professionista, per l’impresa — anche la più evoluta —, spesso per la banca stessa.
Sembra possibile, tuttavia, delineare supposizioni logicamente fondate in base alle quali —in modo, se vogliamo, grossolano ed “artigianale” data la non disponibilità delle dotazioni tecnologiche e delle informazioni, di cui possono disporre solo i grandi operatori bancari e finanziari nazionali ed internazionali — si possa arrivare ad individuare un possibile range di posizionamento del costo del denaro sia in relazione al merito creditizio dell’impresa finanziata sia in relazione alla specifica forma tecnica di finanziamento, di volta in volta, richiesta o utilizzata.
Tali ragionamenti devono necessariamente partire, ancora una volta, dai quei principi e concetti base che hanno guidato l’impostazione e lo sviluppo di Basilea 2 e cioè che ciascuna banca deve detenere un certo capitale proprio in funzione dei rischi assunti e che, in relazione al rischio di credito, ciascun finanziamento erogato all’impresa assorbe una certa quota di detto capitale in funzione del merito creditizio del prenditore, che dipende dai noti elementi di natura quantitativa, qualitativa ed andamentale, ed in funzione del sistema di garanzie associato alla specifica esposizione.
Dette considerazioni, tuttavia, originano anche dal constatare come l’istituto di credito finanziatore sia comunque un’impresa che per, massimizzare il profitto dei propri azionisti, ricorre alla leva finanziaria e ragiona, quindi, nella valutazione della profittabilità di un investimento, in termini di confronto fra il rendimento operativo dello specifico asset ed il costo medio ponderato delle fonti finanziarie impegnate per finanziarlo.
Senza entrare nei dettagli, prima di procedere con l’illustrazione della metodologia oggetto del presente contributo, è opportuno precisare da subito come, nella realtà, non sia così agevole, come potrebbe apparire ictu oculi, determinare il costo medio delle fonti onerose della banca (derivanti dal rendimento riconosciuto ai depositi, dal costo degli approvvigionamenti interbancari, dal costo delle altre fonti quali obbligazioni ed altri titoli emessi. ecc.); né il rendimento del capitale proprio atteso dall’azionista bancario; né tantomeno la quota di capitale proprio che la banca dovrà detenere a fronte dello specifico finanziamento erogato; né, infine, le quote di capitale proprio che dovranno essere accantonate a fronte degli altri rischi assunti diversi dal rischio di credito, quali i rischi operativi ed i rischi di mercato, per i quali l’attuale regolamentazione in tema di patrimonio di vigilanza prevede, peraltro, specifiche modalità di quantificazione e che incidono, in modo più o meno intenso, nelle strategie di gestione ed allocazione del capitale nel suo complesso.
Nell’ipotesi di disporre delle suddette informazioni o, più realisticamente, di poterle ipotizzare con un minimo grado di ragionevolezza, appare possibile ricostruire dall’esterno, per deduzione logica, quantomeno un valore minimo del tasso di interesse, al di sotto del quale quasi certamente l’istituto di credito non andrà a posizionare il proprio rendimento sulla specifica esposizione.
Nell’ipotesi di disporre delle suddette informazioni o, più realisticamente, di poterle ipotizzare con un minimo grado di ragionevolezza, appare possibile ricostruire dall’esterno, per deduzione logica, quantomeno un valore minimo del tasso di interesse, al di sotto del quale quasi certamente l’istituto di credito non andrà a posizionare il proprio rendimento sulla specifica esposizione.
Dal punto di vista concettuale e metodologico, tale ricostruzione, sebbene la correttezza delle variabili utilizzate nel calcolo sia opinabile, è di semplice applicazione e, per il singolo affidamento o finanziamento, si può concretizzare nelle seguenti fasi operative:
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individuazione dell’importo del capitale finanziato (cioè l’esposizione ad una determinata data);
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applicazione a detto importo di un coefficiente di ponderazione del rischio, direttamente derivante dal rating assegnato all’azienda (probabilità di default) e dal rating della specifica operazione (correlato alla perdita in caso di default), che esprime la misura del capitale proprio che la banca dovrà detenere a fronte del rischio di credito assunto;
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individuazione della misura del capitale di debito che la banca potrà utilizzare per finanziare l’esposizione, per differenza fra l’importo dell’esposizione e l’importo del capitale proprio da detenere come appena determinato;
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applicazione all’importo del capitale proprio del rendimento atteso del capitale di rischio, cioè il rendimento atteso dagli azionisti dell’istituto di credito finanziatore;
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applicazione all’importo del capitale di debito del costo medio delle fonti onerose sopportato dalla banca;
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applicazione all’esposizione di un coefficiente percentuale rappresentativo dei costi di gestione del finanziamento.
Per meglio chiarire la logica sottostante, si ipotizzi, in condizioni di mercato quali quelle attuali, di dover quotare il costo di un finanziamento dell’importo di € 1.000.000, al quale sia associato un coefficiente di ponderazione del rischio dell’8%, con la banca che si finanzia ad un costo medio del capitale di debito del 2,5% e ad un costo del capitale proprio del 10% con un’incidenza dei costi di gestione della posizione dello 0,50% e, per semplificare, in assenza di imposizione fiscale.
Il risultato ottenuto di € 36.000, se paragonato all’esposizione di € 1.000.000, rappresenta il rendimento minimo annuale, vale a dire il tasso di interesse (in questo caso il 3,60%) che la banca dovrà necessariamente richiedere al cliente per essere in grado di coprire il costo medio ponderato delle proprie fonti di finanziamento ed i costi di gestione e, dunque, garantire una redditività dell’esposizione in grado di remunerare adeguatamente sia il capitale di debito che il capitale di rischio. Le eccedenze di tasso, richieste rispetto a tale valore, costituiranno un sovra-profitto, la cui riduzione è, tuttavia, di difficile negoziazione, dal momento che ad essa sono collegati complessi meccanismi di incentivazione delle strutture direzionali addette alla gestione degli impieghi e gli obiettivi di
budget della banca.
Dall’esempio di cui sopra emerge, altresì, il limite della descritta metodologia.
Mentre, infatti, le variabili costo medio del capitale di debito, costo del capitale proprio e costi di gestione, seppur di difficile quantificazione, possono essere ragionevolmente stimate, utilizzando fonti tutto sommato accessibili (bilanci bancari, analisi del settore, reportistica presente in siti di organismi finanziari istituzionali, ecc.), il coefficiente di ponderazione del rischio, di volta in volta applicato alla specifica esposizione, non è noto ed è solo vagamente ipotizzabile dall’analista esterno, poiché esso dipende dal sistema di
rating (nelle varianti
Standard,
IRB standard ed IRB advanced) adottato dalla singola banca per la stima delle perdite attese sulla specifica esposizione. La causa di tale limite è ascrivibile al fatto che tale sistema, data la sua funzione, rappresenta uno dei principali
intangible asset bancari di natura strategica, in quanto, su di esso, sono in buona parte basati, in ultima istanza, il profilo di rischio-rendimento e la strategia di mercato di ogni istituto di credito.
L’impatto sull’onerosità del credito, derivante da variazioni del coefficiente di ponderazione è sensibile. Si ipotizzi, infatti, riprendendo l’esempio precedente, che, a parità di tutte le altre condizioni, esso si attesti al 70%, percentuale forse attribuibile ad aziende in situazione di significativa tensione finanziaria per linee di credito prive di garanzia.
In questo caso il tasso minimo praticabile dalla banca, ammesso che nella sua strategia d’impresa tale livello rappresenti un profilo di rischio-rendimento tollerabile, non potrà essere inferiore all’8,25%, con un evidente forte appesantimento dell’onerosità del credito a carico del soggetto prenditore rispetto all’esempio precedente.
E’ inoltre di tutta evidenza come, in presenza di garanzie forti, quali ipoteche su immobili residenziali, garanzie personali rilasciate da particolari tipologie di soggetti qualificati,
cash equivalent, che abbassano sensibilmente il rischio, il costo minimo del credito potrà ulteriormente ridursi anche rispetto al primo caso.
In ragione della alta variabilità di risultati, la stima del descritto coefficiente di ponderazione del rischio deve necessariamente essere condotta, in modo il più possibile rigoroso, a diversi livelli, per singola
legal entitiy, e per singola linea di credito, tenendo nella massima considerazione il possibile impatto delle diverse forme di garanzia ad essa eventualmente associate.
Tutto ciò con la consapevolezza che i risultati ottenuti costituiscono solo un tassello di un ragionamento economico finanziario più ampio, che deve necessariamente abbracciare anche elementi di natura qualitativa, legati alle specificità dell’impresa e del suo settore di appartenenza, ed elementi legati alle vicende della relazione intercorsa nel tempo con il proprio interlocutore bancario nonchè alle circostanze congiunturali della specifica fase negoziale.
a cura di: dott. Salvatore Basile
pubblicato su
C&S Informa, volume 11, numero 3 anno 2010