Nell’ambito dell’acceso dibattito dottrinale concernente l’elusione fiscale ed i suoi tratti distintivi, merita di essere approfondita la questione dell’applicabilità o meno delle sanzioni amministrative, ripercorrendo l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione, alla luce delle ultime sentenze, e quello della dottrina che si divide a sostegno di due tesi diametralmente opposte.
Inquadramento generale
L’elusione fiscale, disciplinata dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, si configura con l’aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario per talune circostanziate fattispecie con il fine di ottenere vantaggi fiscali, considerati dalla normativa come indebiti, cioè non conformi alla ratio cui si ispira la norma fiscale; il tutto in assenza di valide ragioni economiche[1].
La norma impone di verificare, non solo l’esistenza di un vantaggio fiscale, bensì la contrarietà di quest’ultimo rispetto ai principi che ispirano l’ordinamento tributario; la mera presenza di un vantaggio fiscale non configura, de plano, una fattispecie elusiva, posto che tale vantaggio dev’essere disapprovato dal sistema, ovvero considerato, se vogliamo, “offensivo”.
Il Legislatore, infatti, consente al contribuente di pianificare la propria attività anche in un’ottica di riduzione del carico fiscale, dal momento che gli è permesso di scegliere tra molteplici alternative, senza dover intraprendere necessariamente la via fiscalmente più onerosa.
Per poter entrare nel binario dell’elusione il vantaggio fiscale conseguito deve essere asistematico, ovvero contrario al sistema. Si pensi, a riguardo, al caso di due società, Alfa e Beta, che si trovino nella seguente situazione:
Alfa |
Beta |
Anno X |
Anno X |
Reddito |
Perdite |
imponibile |
fiscalmente |
1.000 |
rilevanti: |
|
800 |
1. Si immagini che venga deliberata un’operazione di fusione per incorporazione di Beta in Alfa, mediante la quale, in virtù e nel rispetto di quanto disposto dall’art. 172 del D.P.R. 917/1986, co. 7, alla società Alfa sia consentito portare in diminuzione del suo reddito le perdite della società incorporata; dall’incorporazione ne risulterebbe un abbattimento del reddito imponibile pari al totale delle perdite, in origine, di Beta:
Alfa |
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+ Beta |
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Anno X |
|
Reddito |
|
imponibile |
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200 |
|
2. Si ipotizzi infine che venga deliberata un’operazione di scissione parziale, ai sensi dell’art. 173 del D.P.R. 917/1986, a seguito della quale si pervenga alla ricostituzione della società Beta; quest’ultima risulterebbe “nettata” delle perdite fiscali possedute ante fusione:
Beta |
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Anno X |
|
Perdite |
|
fiscalmente |
|
rilevanti: 0 |
|
Nella fattispecie sopra prospettata, Alfa riuscirebbe ad utilizzare le perdite fiscali di Beta, ricorrendo all’istituto della fusione per incorporazione prima e a quello della scissione parziale poi; due istituti, questi ultimi, previsti e normati dalla legge e ai quali il Legislatore tributario riconosce neutralità fiscale. L’operazione testé descritta risulterebbe, perciò, posta in essere “alla luce del sole” [2]: l’elusore, infatti, a differenza dell’evasore, non nasconde ricchezza all’amministrazione finanziaria, bensì sfrutta smagliature del sistema al fine di procurarsi un vantaggio contrario ai principi tributari[3].
Ciononostante, i vantaggi fiscali conseguiti e appurati come contrari al sistema, potrebbero essere garantiti al contribuente qualora vi fossero, alla base dell’operazione, valide ragioni economiche. Lo schema di ragionamento è impostato, in primis, sull’accertamento di un vantaggio fiscale e successivamente sulla contrarietà di quest’ultimo rispetto al sistema; l’assenza di valide ragioni economiche non può essere considerato presupposto alla configurazione della fattispecie elusiva[4]. La presenza di valide ragioni economiche assume perciò il ruolo di “esimente”: un ruolo che consente di togliere il velo di elusività all’operazione posta in essere.
L’art. 37-bis del D.P.R. N. 600/1973, oltre ad enucleare al suo interno la definizione di elusione e i casi ai quali si rende applicabile, contiene una serie di disposizioni procedimentali che l’amministrazione è tenuta a seguire per l’emissione dell’avviso di accertamento; la disposizione assume, per questo motivo, il connotato della “specialità”[5].
Tra l’altro, merita di essere evidenziato il co. 6, laddove si dispone che “le imposte o le maggior imposte accertate in applicazione delle disposizioni di cui al comma 2 sono iscritte a ruolo, secondo i criteri di cui all’art. 68 del D.lgs. 31 dicembre 1992, n.546, concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in pendenza di giudizio, unitamente ai relativi interessi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale”. Stante la sensibilità della contestazione mossa con gli avvisi suddetti, il Legislatore ha previsto che si debba attendere la pronuncia del giudice di primo grado prima di procedere con la riscossione provvisoria.
Inquadrato il fenomeno e i suoi caratteri distintivi, procediamo ora a ripercorrere il pensiero della dottrina sul tema dell’applicabilità delle sanzioni nell’ambito di avvisi di accertamento emessi in forza dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.
L’applicabilità delle sanzioni amministrative secondo la giurisprudenza
Se la dichiarazione presentata dal contribuente è infedele, scatta l’applicazione delle sanzioni, anche in ipotesi di avviso di accertamento incentrato sull’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25537 del 30 novembre 2011, ha condannato una società a pagare la sanzione amministrativa per infedele dichiarazione, a seguito del disconoscimento di vantaggi tributari derivanti da una complessa operazione di riorganizzazione societaria considerata, appunto, elusiva.
Al di là del complesso disegno messo a punto dalla società e ritenuto elusivo, ci interessa, in questa sede, ragionare sulle motivazioni che hanno spinto i supremi giudici a ritenere meritevole di sanzione quanto dichiarato dal contribuente.
Vale la pena ricordare che la disciplina relativa alle sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie è contenuta nel D. Lgs. n. 471/1997; segnatamente, l’art. 1 del citato decreto prevede che la dichiarazione risulti infedele allorché nella stessa sia indicato un reddito imponibile inferiore a quello accertato o comunque un’imposta inferiore a quella dovuta o un credito maggiore rispetto a quello accertato, o nell’ipotesi in cui in dichiarazione siano esposte indebite detrazioni dall’imposta ovvero indebite deduzioni dall’imponibile.
Secondo l’ultima pronuncia della Corte di Cassazione, la sanzione sarebbe dovuta per il solo fatto che in dichiarazione sia stato indicato un reddito inferiore rispetto a quello accertato; la difformità della dichiarazione rispetto all’avviso di accertamento diviene, perciò, presupposto per l’applicazione della sanzione[6]. In sostanza, al fine di ritenere non applicabili le sanzioni amministrative, non è sufficiente sostenere che nell’elusione si ha l’aggiramento e non la violazione della disposizione, come indicato nella memoria difensiva della società ricorrente; la Cassazione pone l’accento sul confronto tra dichiarazione e avviso di accertamento, esaltando il carattere di infedeltà della dichiarazione in ipotesi di scostamento tra quantum dichiarato e quantum accertato.
La Corte di Cassazione, con tale sentenza, assume una posizione in controtendenza rispetto a quanto sostenuto in precedenza, in particolare con la Sentenza n. 12042 del 25 maggio 2009, nella quale si sosteneva che devono essere disapplicate le sanzioni amministrative in presenza di comportamento elusivi/abusivi, quando si verificano condizioni di obiettiva incertezza circa il quadro normativo da applicare[7].
Nella stessa direzione di inapplicabilità delle sanzioni alle fattispecie elusive si è mossa la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia con la sentenza n. 199/44/2011 nella quale i giudici milanesi ritengono che il potere sanzionatorio può essere legittimamente esercitato solo in presenza di una violazione di una norma mentre la comminazione di sanzioni non è prevista nell’art. 37-bis[8].
L’orientamento dei giudici appare difforme con conseguente disorientamento che induce ad una riflessione in merito alla corretta, o meno, attribuzione di “infedeltà” alla dichiarazione del soggetto elusore.
L’applicabilità delle sanzioni amministrative in dottrina: due tesi a confronto
In dottrina, sono state avanzate due tesi opposte che di seguito illustriamo.
- La prima tesi, favorevole all’applicabilità delle sanzioni connesse al comportamento elusivo del contribuente, ritiene l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 una norma di tipo sostanziale, ovvero rivolta al contribuente, il quale è tenuto a considerarla in sede di predisposizione della propria dichiarazione. Egli è vincolato, secondo questa teoria, ad auto disconoscere, in dichiarazione, i vantaggi tributari legati al comportamento, potenzialmente, elusivo; in altre parole, ciò significa equiparare l’art. 37-bis a una qualsivoglia disposizione fiscale che il contribuente vaglia in sede di predisposizione della dichiarazione.
Inoltre, la tesi è corroborata dal richiamo del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, in virtù del quale, elusione ed evasione conducono al medesimo risultato di riduzione dell’imposta dovuta. Da un punto di vista puramente sociale, salvaguardando infatti l’elusore dalle sanzioni si rischierebbe di incentivare comportamenti volti a sfruttare le smagliature del sistema, sapendo che l’eventuale disconoscimento non comporterebbe l’applicazione di alcuno strumento afflittivo.
- La seconda tesi, invece, si discosta diametralmente dalla prima, considerando l’art. 37-bis una norma di natura procedimentale, in quanto rivolta all’amministrazione finanziaria, non imponendo in capo al contribuente nessun tipo di obbligo di auto disconoscimento dei vantaggi tributari in sede di autoliquidazione. In quest’ottica, la norma attiene esclusivamente ai poteri riconosciuti dal Legislatore all’amministrazione finanziaria.
Anche questa seconda tesi si ispira al principio di eguaglianza, capovolgendone però la lettura e sostenendo che non può essere offerto il medesimo trattamento sanzionatorio a colui che viola la disposizione, occultando fatti che nella realtà si sono verificati (evasore), rispetto a chi aggira la norma (elusore) presentando una dichiarazione integra nella sua sostanza poiché rappresentativa di fatti leciti, realizzati e correttamente esposti.
Inoltre, la tesi in commento pone l’accento anche sulla collocazione, all’interno del tessuto normativo, dell’art. 37-bis; si ritiene, infatti, che se il Legislatore avesse voluto considerare tale norma al pari delle altre disposizioni fiscali rivolte al contribuente, l’avrebbe collocata, ex professo, all’interno del Testo Unico delle Imposte sui Redditi e non nel D.P.R. n. 600/1973 che raccoglie al suo interno le disposizioni in materia di accertamento delle imposte sui redditi.
Inoltre, focalizzandosi sul dato letterale, l’art. 37-bis, al secondo comma, si rivolgerebbe espressamente all’amministrazione finanziaria in quanto recita: “L’amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari [..]”, dove il soggetto è, appunto, l’amministrazione finanziaria.
Infine, l’art. 37-bis prevede, sempre al secondo comma, che l’amministrazione finanziaria in ipotesi in cui accerti l’elusione, applichi l’imposta sull’operazione elusa, ovvero sull’operazione che il contribuente non ha posto in essere, e scomputi l’imposta pagata sull’operazione elusiva, ovvero sull’operazione che il contribuente ha realmente realizzato. Questo meccanismo di tassazione “differenziale” sembrerebbe far ritenere che la dichiarazione predisposta dal contribuente “elusore” sia fedele e che spetti semmai, in un momento successivo, all’amministrazione finanziaria indagare sulla presenza di elusione e procedere secondo questa modalità di tassazione[9].
Conclusioni
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25537 del 30 novembre 2011 testé richiamata argomenta l’infondatezza della richiesta di disapplicazione delle sanzioni, richiamando entrambe le tesi diffuse in dottrina; in tale sentenza infatti, la Suprema Corte, in prima battuta, non nega la natura procedimentale attribuibile alla norma; tuttavia, giunge a concludere che le sanzioni sono dovute, per il fatto che è sufficiente via sia un delta tra il quantum dichiarato e il quantum accertato, posto che, come si legge in un passaggio della Sentenza,“la legge non considera per l’applicazione delle sanzioni quale criterio scriminante la violazione della legge o la sua elusione o aggiramento, essendo necessario e sufficiente che le voci di reddito evidenziate nella dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o siano "indebite" “.
La Suprema Corte riterrebbe sufficiente, nella pronuncia in commento, constatare l’esistenza di una differenza tra il reddito imponibile dichiarato e quello accertato ovvero un’imposta inferiore a quella dovuta o un credito superiore a quello spettante[10] per ritenere applicabili le sanzioni previste per l’infedele dichiarazione.
La questione si configura assai spinosa e le insidie si inaspriscono dal momento che le “furbizie” declinabili in elusione non hanno un’unica faccia; potrebbe essere ritenuto “elusore” colui che artificiosamente crei situazioni al fine di sfruttare le imperfezioni del sistema per garantirsi vantaggi allo stesso contrari; ma potrebbe configurarsi “elusore” anche colui che, nell’incertezza delle norme, e dunque per una scorretta interpretazione dello spirito del Legislatore, incappi in una fattispecie elusiva, pur non avendo aprioristicamente congegnato alcun percorso volto a ottenere vantaggi indebiti.
Il punto sta perciò nell’individuare o nel censurare la liaison tra elusione e sanzione, considerando che il propendere per l’una o per l’altra tesi potrebbe, anche dal fronte della sanzioni penali, rivelarsi di assoluta importanza.
[1] Non viene trattato in questa sede il tema dell’abuso del diritto;
[2] Questo esempio chiarisce il significato del concetto di “asistematicità” del vantaggio fiscale, posto che il Legislatore nell’ammettere la possibilità di ricorrere ad istituti fiscalmente neutrali come quello della fusione societaria, non ha inteso concedere alle società uno strumento da utilizzare con il fine esclusivo di guadagnare perdite fiscali spendibili; la possibilità di scomputare perdite fiscali rappresenta un “quid pluris” che viene offerto dal Legislatore quando il contribuente utilizza la fusione piuttosto che un altro istituto per fini, ad esempio, di riorganizzazione societaria.
[3] Si veda BEGHIN M., “Diritto tributario – Princìpi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza”, Torino: 2011, 207 ss.
[4] L’avviso di accertamento incentrato sull’art. 37-bis non può fare leva sull’assenza di valide ragioni economiche, quando nulla si dice in merito al vantaggio ottenuto ed alla constatazione circa la sua “asistematicità”; il Legislatore potrebbe offrire vantaggi fiscali puri, senza che vi siano ragioni economiche a supporto; lo schema logico da seguire richiede di valutare se il vantaggio ottenuto è contrario al sistema. E qualora lo fosse, in presenza di valide ragioni economiche, l’elusione verrebbe meno in virtù dell’esimente che funge da “salvagente”.
[5] La norma assume il carattere della “specialità” poiché l’avviso di accertamento che ne consegue si distanzia dall’ordinario avviso di accertamento disciplinato dall’art. 42 del medesimo decreto.
[6] Per chiarezza espositiva, si riporta, il passaggio chiave della Sentenza: “La legge non considera per la applicazione delle sanzioni quale criterio scriminante la violazione della legge o la sua elusione o aggiramento, essendo necessario o sufficiente che le voci di reddito evidenziate nella dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o siano “indebite”, aggettivo espressamente menzionato nell’art. 37-bis, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973. In sostanza, le sanzioni si applicano per il solo fatto che la dichiarazione del contribuente sia difforme rispetto all’accertamento.”
[7] Anche la Commissione tributaria Provinciale di Milano, con la sentenza n. 278 del 13 dicembre 2006, in più passaggi sostiene l’inapplicabilità della sanzione, in primis, per il fatto che “non si può imporre al contribuente di operare nella propria dichiarazione dei redditi <<auto disconoscimento>> di operazioni lecitamente effettuate”; ancora, secondo i giudici lombardi, “nella normativa dell’art. 37-bis non è comminata alcuna sanzione, salvo il sussistere di un riferimento, nel sesto comma, ma si tratta di automatismo derivante dal richiamo all’art. 68 del D.P.R. n. 456/1992”. Infine, si dispone che “[..] il disconoscimento dei vantaggi tributari conseguiti è già di per sé <<la>> sanzione, peraltro giusta e più che sufficiente per un comportamento che è perfettamente lecito”. Si veda il commento a cura di: GUARDASCIA, L., “Inapplicabilità delle sanzioni per comportamenti elusivi”, in Corriere Tributario, 7/2007, 49. A sostegno della non sanzionabilità, si veda anche: SABATINO, U., “Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 199/44/11 del 20 dicembre 2011 – Niente sanzioni amministrative in caso di elusione”, in Il Fisco, 11/2012, 1685.
[8] Si riporta un passaggio chiave della Sentenza n. 199/44/2011: “Devesi preliminarmente rilevare, in proposito, che nell'art. 37-bis del D.P.R. 600/73 non è specificamente prevista la comminazione di alcuna sanzione. Inoltre l'applicazione di una sanzione ad un comportamento elusivo non sembra coerente con l'ordinamento che prevede la sanzione in caso di violazione di una norma e non in caso di elusione della stessa. L'elusione resta, comunque, concetto sempre opinabile in quanto riferibile a comportamenti del contribuente "asseritamente" elusivi. La previsione di una sanzione commisurata con lo stesso parametro della violazione, in assenza di una specifica previsione normativa, comporterebbe un abuso del diritto. Per i motivi sopra indicati, sembra a questo Collegio che non debbano essere comminate sanzioni in relazione all'unico punto dell'accertamento qui confermato, trattandosi di recupero a tassazione di perdite connesse con un comportamento ritenuto elusivo della società contribuente”.
[9] Per un approfondimento si vedano, in dottrina: LUPI, R., “Disorientamenti sull’elusione, salvo che per le sanzioni”, in GT Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 7/2007, 616; DAMI F., “La condotta elusiva deve essere sanzionata pur nel rispetto dei principi generali”, in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2/2012, 107; ZANETTI, E., “Applicabilità delle sanzioni pecuniarie e rilevanza penale delle condotte elusive”, in Il Fisco, 17/2012, 2599; GABELLI, M., ROSSETTI, D., “Cass., n. 25537 del 30 novembre 2011: anche l’elusione sconta le sanzioni amministrative”, in Il Fisco, 48/2011, 7906; BALLANCIN, A., “Una decisione dei giudici di merito discutibile sull’elusione, ineccepibile sulle sanzioni”, in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 7/2007, 616; GALLIO, F., “Le operazioni considerate elusive sono sempre sanzionabili?”, in Il Fisco, 16/2012, 2443; SCREPANTI, S., “Elusione fiscale, abuso del diritto e applicabilità delle sanzioni amministrative”, in Rassegna Tributaria, 2/2011, 413; MARCHESELLI, A., “Elusione e sanzioni: una incompatibilità logico giuridica”, in Corriere Tributario, 25/2009, 1988; COLLI VIGNARELLI, A., “Elusione, abuso del diritto e applicabilità delle sanzioni amministrative”, in Bollettino Tributario, 9/2009, 679.
[10] Nella Sentenza la Corte di Cassazione conclude sostenendo che: ”in sostanza le sanzioni si applicano per il solo fatto che la dichiarazione del contribuente sia difforme rispetto all’accertamento”.
a cura di:
dott.ssa Alice Cerato
pubblicato su:
C&S Informa, volume 12, numero 4 anno 2012