La deducibilità del compenso spettante agli amministratori in presenza di irregolarità nella delibera del compenso

Temi e Contributi
28/01/2013
In queste nostre colonne informative è stato recentemente affrontato il tema dei compensi spettanti agli amministratori di società sotto il profilo squisitamente civilistico, anche tramite un’interessante ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale (Anna Domenighini - “Il diritto al compenso dell’amministratore di società - CS Informa n. 6/2012

Con il presente contributo viene affrontato il tema del compenso spettante all’amministratore di società sotto il profilo fiscale, nella particolare fattispecie in cui sia erogato in assenza di delibera assembleare, o in presenza di delibera non del tutto corretta sotto un profilo formale.

Si riscontrano infatti, nella prassi professionale, episodi in cui l’Amministrazione Finanziaria, nel corso delle periodiche verifiche fiscali riprende a tassazione i costi dedotti dalla società a fronte di compensi erogati agli amministratori, laddove l’erogazione avvenga in assenza della prescritta delibera assembleare.

L’Amministrazione, talvolta, nel motivare la ripresa a tassazione fa riferimento ad una Sentenza della Corte di Cassazione di qualche anno fa, precisamente la 29 agosto 2008, n. 21933, che postula la necessità di una specifica delibera assembleare per riconoscere la spettanza del compenso agli amministratori delle società di capitali; sarebbe, di conseguenza, nulla l’attribuzione del compenso in assenza di tale delibera. Da tale nullità relativa all’attribuzione del compenso, si è riscontrato il tentativo dell’Amministrazione di far conseguire l’indeducibilità del costo per la società erogante.

È interessante, sul punto, svolgere qualche breve considerazione volta a dimostrare come tali riprese a tassazione così motivate possano risultare censurabili.

In primo luogo, va sicuramente rilevato come il caso affrontato dalla menzionata sentenza della Corte di Cassazione abbia ad oggetto esclusivamente una disputa di carattere civilistico, senza che la Suprema Corte affronti in alcun modo temi di carattere fiscale. In quel caso, infatti, la materia del contendere verteva sulla condotta illegittima di taluni amministratori, revocati dalla carica, che tra le tante azioni scorrette avevano prelevato compensi non preventivamente deliberati dall’assemblea. In quella sede, la Cassazione sentenziò che dall’inesistenza della delibera derivava la nullità degli atti di auto-attribuzione dei compensi operata dagli amministratori. Il presupposto della causa, quindi, era un non autorizzato prelievo di compensi da parte degli amministratori, cui i soci avevano reagito opponendosi. Si trattava, in altre parole, di una questione del tutto particolare e, cosa non irrilevante nell’affrontare il tema in ipotesi di mancanza di conflittualità all’interno della società, non è dato riscontrare dalla lettura della sentenza che la Suprema Cassazione abbia decretato, quale corollario della declaratoria di nullità dell’azione di autoattribuzione del compenso prelevato dagli amministratori, l’indeducibilità del costo in esame.

Peraltro, si segnala che in senso favorevole alla rilevanza solo civilistica e non fiscale della normativa in materia di delibere assembleari si sono espresse la Commissione tributaria provinciale della Lombardia, nella sent. 31 marzo 2006, n. 36, e la Commissione tributaria regionale della Toscana, nella sent. 25 novembre 2008, n. 170.

Sotto altro profilo, è possibile individuare anche un evidente rischio di duplicazione d’imposta nella tipologia di ripresa a tassazione qui in esame.

L’articolo 95 del Tuir, nello specificare che i compensi spettanti agli amministratori sono deducibili in base al criterio di cassa e non di competenza, come noto, mira ad evitare il fenomeno tale per cui a fronte di un costo solo stanziato a bilancio ma non erogato all’amministratore beneficiario (che spesso nelle società a ristretta base partecipativa coincide in larga parte con il socio) si possa ottenere una deduzione fiscale (in capo alla società) in assenza di tassazione in capo al beneficiario (nel caso in cui non avesse appunto percepito il compenso). Detto articolo, in sintesi, risponde ad una corretta esigenza di simmetria tra costi e proventi di due soggetti che potremmo definire “contigui”. In altri termini, il sistema viene posto in equilibrio laddove al costo dedotto corrisponda, in linea di massima, un provento tassato. Non devono sussistere i c.d. “salti d’imposta” da un lato, mentre dall’altro lato non devono nemmeno inverarsi casi di “doppia imposizione”, né giuridica (laddove si verifichi in caso ad un unico soggetto), né economica, come avviene qualora l’Amministrazione Finanziaria pretenda di avanzare la tipologia di ripresa in oggetto. È del tutto evidente, infatti, che rendendo indeducibile il compenso dell’amministratore in capo alla società in questo caso, si altererebbe l’equilibrio del sistema, posta l’intervenuta tassazione in capo al percipiente, ovviamente nel caso di effettivo percepimento del compenso.

Tali considerazioni trovano riscontro a livello giurisprudenziale da parte della Commissione tributaria provinciale della Lombardia, nella sentenza 31 marzo 2006, n. 36 e della Commissione tributaria provinciale di Milano, nella sentenza 2 marzo 2012 n. 48.

Si può infine rilevare un ulteriore elemento di perplessità relativamente a tali riprese a tassazione, laddove si collochi correttamente, prima di tutto sotto un profilo civilistico, il rapporto tra società ed amministratore. Sia la dottrina che la giurisprudenza hanno ormai pacificamente acquisito il principio, già in costanza delle norme precedenti alla riforma, che l’incarico di amministratore presso una società è per sua natura oneroso, indipendentemente dall’attribuzione di deleghe al singolo consigliere.

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel presumere un diritto dell’amministratore di società di capitali al compenso sulla scorta delle seguenti due considerazioni argomentate da precise disposizioni civilistiche (si veda anche l’articolo su CS Informa precedentemente citato):
  • la prima è che l’incarico rivestito ha un contenuto riconducibile al mandato (sia pure con un obbligo di adempiere non tanto con la diligenza del buon padre di famiglia, ma con la competenza richiesta dai doveri derivanti dall’incarico stesso), ed il mandato è per sua natura oneroso per espressa previsione (artt. 1709 c.c.);    
  • la seconda è che è previsto un diritto al risarcimento del danno disposto a favore dell’amministratore revocato senza giusta causa (artt. 2383, 3° comma, 2409 novies, 5° comma, 2409 noviedecies, 1° comma, c.c.), che ha la sua ragion d’essere in una legittima aspettativa dell’amministratore di una retribuzione, violata in conseguenza della risoluzione anticipata del rapporto. 
Ciò posto, ed esclusi i casi di incarico di amministrazione prestato in maniera gratuita su esplicita scelta degli amministratori, è evidente come l’onerosità sia immanente al rapporto organico amministratore – società. Qualora la misura del compenso non sia deliberata dall’assemblea, soccorreranno quegli elementi “certi e precisi” di cui all’articolo 109 del TUIR, naturalmente laddove esistenti. 

Concludendo, si può affermare che, a fronte delle riprese a tassazione qui in esame, sussistono robusti motivi di contestazione (ad esempio quelli sopra riportati) che è quindi possibile sviluppare in chiave difensiva.

a cura di: 

dott. Franco Di Ciaula 

pubblicato su:

C&S Informa, volume 13, numero 8 anno 2012