Con le recenti Sentenze n. 6070, 6071 e 6072, tutte del 12 marzo 2013, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affrontato un tema di grande importanza pratica, oltre che sistematica: quello degli effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese.
La materia era già stata affrontata da precedenti sentenze della Corte di Cassazione che, nell’interpretare l’art. 2495 c.c., come introdotto dalla riforma del diritto societario (D.lgs. n. 6/2003), avevano dettato una serie di principi che le Sezioni Unite ritengono tutt’ora condivisibili, e che sono i seguenti:
Fissati questi principi, ritenuti ancora attuali e condivisibili, le Sezioni Unite passano ad occuparsi degli effetti che la cancellazione – e conseguente estinzione della società – produce sui rapporti, originariamente facenti capo all’ente disciolto, che non siano stati definiti nella fase della liquidazione, o perché in quella sede trascurati (“residui non liquidati”, secondo l’espressione utilizzata dalla Corte), o perché solo in seguito se ne è scoperta l’esistenza (le c.d. “sopravvenienze”).
Tali rapporti possono avere natura passiva (essere cioè costituiti da debiti) ovvero attiva (essere cioè costituiti da pretese creditorie o diritti della più varia natura).
Per quanto attiene i rapporti passivi, è la legge a disciplinare, in maniera compiuta, la loro sorte successiva allo scioglimento dell’ente collettivo; da tale disciplina le Sezioni Unite ricavano dei principi utili ad individuare le regole applicabili anche ai rapporti attivi, ed a risolvere una serie di questioni, anche processuali, che prima erano discusse (e che avevano giustificato la remissione del tema alle Sezioni Unite in funzione di soluzione dei conflitti emersi in seno alle Sezioni semplici).
Con riguardo, appunto, ai rapporti attivi, l’art. 2495 c.c. (dettato in tema di società di capitali) stabilisce che i creditori insoddisfatti all’esito della liquidazione e cancellazione della società possono agire nei confronti dei soci dell’ente disciolto, sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione.
Per quanto attiene le società di persone, le norme che vengono in rilievo sono quelle contenute nell’art. 2312 (relativo alle S.n.c.) e nell’art. 2324 (relativo alle S.a.s.); anche queste disposizioni prevedono che, a seguito della cancellazione (ed estinzione) dell’ente collettivo, dei debiti sociali vengano a rispondere gli ex soci. L’estensione della responsabilità dei soci, tuttavia, varia a seconda che questi, pendente societate, e secondo la forma societaria prescelta, fossero o meno illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali; nel primo caso (che riguarda, ad esempio, i soci della S.n.c., e gli accomandatari della S.a.s.), la loro responsabilità rimane illimitata anche dopo l’estinzione dell’ente; nel secondo caso (riguardante i soci accomandanti delle S.a.s.) la responsabilità sarà contenuta entro i limiti di quanto da loro percepito in sede di riparto finale di liquidazione, analogamente alla regola che si è vista valere per i soci delle società di capitali.
Da queste norme, la Corte fa discendere una serie di corollari, i più importanti dei quali sono i seguenti:
Dalla ricostruzione in termini lato sensu successori della fattispecie, operata sulla base delle norme positive riguardanti i rapporti passivi già facenti capo alla società, la Corte trae argomenti per ricostruire la sorte anche dei rapporti attivi, così colmando il silenzio serbato sul punto dal legislatore.
Al riguardo, la Corte sgombera subito il campo dal dubbio, adombrato da alcune pronunce delle Sezioni semplici, in ordine alla stessa sopravvivenza di quei rapporti alla cessazione dell’ente; pronunce (fra cui ad es. Cass. Sent. n. 16758/2010) secondo cui la scelta del liquidatore di cancellare la società senza definizione di alcuni dei rapporti che ad essa facevano capo potrebbe essere interpretata come una tacita rinuncia alle relative pretese.
Secondo le Sezioni Unite occorre distinguere a seconda che le pretese in questione, al momento dello scioglimento dell’ente, fossero incerte o comunque illiquide, e come tali “neppure ragionevolmente iscrivibili all’attivo del bilancio finale di liquidazione” (come i crediti risarcitori, il cui accertamento ed esatta individuazione richiederebbe l’instaurazione di un procedimento giudiziale), dal caso in cui esse avessero ad oggetto un diritto od un cespite ben definito ed individuabile (come ad esempio un macchinario o un credito derivante risultante da fattura commerciale non contestata).
Solo nel primo caso, secondo la Corte, sarebbe possibile ravvisare, nella cancellazione della società, l’intenzione del liquidatore di rinunciare alla pretesa – incerta o comunque illiquida – per privilegiare una più rapida conclusione del procedimento estintivo; nel secondo caso invece, della cancellazione non potrebbe darsi un’interpretazione abdicativa di diritti o pretese, dovendosi viceversa domandare quale sia la sorte dei medesimi, a seguito del venir meno dell’ente collettivo.
Per dare risposta a tale interrogativo la Corte prende le mosse dalla già riferita ricostruzione in termini (in senso lato) successori della fattispecie, affermando che i beni ed i rapporti attivi già di titolarità dell’ente, una volta che questo si sia estinto per cancellazione, transitano nella titolarità dei singoli soci, tra i quali si instaura - analogamente a quanto accade fra gli eredi delle persone fisiche - un regime di con titolarità e di comproprietà indivisa; circa le quote di ripartizione fra i soci di tale titolarità indivisa, sebbene la Corte non lo specifichi, è ragionevole supporre che esse debbano ricalcare le quote di partecipazione che spettavano, a ciascun socio, al capitale della società estinta.
Il ragionamento seguito dalla Corte si basa infatti sulla considerazione per cui “se l’esistenza dell’ente collettivo e l’autonomia patrimoniale che lo contraddistingue impediscono, pendente societate, di riferire ai soci la titolarità dei beni e dei diritti unificati dalla destinazione loro impressa dal vincolo societario, è ragionevole ipotizzare che, venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il sostrato personale”.
Dalla ricostruzione in termini successori delle vicende conseguenti all’estinzione della società, la Corte fa discendere conseguenze anche in merito ai profili più strettamente processuali, applicando, ai giudizi interessanti la società estinta, la disciplina dettata, dal Codice di Procedura, per l’ipotesi della morte della persona fisica.
Dato infatti per pacifico che la società estinta non può né agire né essere convenuta in giudizio (occorrendo che ad agire – o ad essere convenuti in giudizio – siano direttamente gli ex soci) , per quanto attiene i processi già pendenti alla data dell’evento estintivo, le Sezioni Unite dettano le seguenti regole:
Le Sentenze qui commentate hanno il pregio di riordinare le questioni inerenti l’estinzione della società e le relative conseguenze sotto un denominatore, quello della successione dei soci nei rapporti sostanziali e processuali, utile per disciplinare anche aspetti non espressamente regolati dalle norme positive.
Per questo motivo, le Sentenze in questione sono state accolte con generale favore dai primi commentatori; alcuni di questi, tuttavia, individuano un punto di debolezza, nel ragionamento delle Sezioni Unite, con riferimento ai rapporti attivi da considerarsi rinunciati a seguito della cancellazione dell’ente.
Si è infatti evidenziato, in Dottrina, come la presunzione di tacita rinuncia (operante, come già si è segnalato, con riferimento ai rapporti incerti e/o illiquidi), se penalizza in primo luogo gli ex soci (che perdono la possibilità di far valere le pretese tacitamente rinunciate, salva la possibilità di agire in via risarcitoria verso il liquidatore ove si dimostri che esse, se coltivate, avrebbero avuto una qualche chance di essere riconosciute in sede giudiziale), in seconda battuta riverbera effetti negativi anche per i creditori sociali; se infatti questi possono agire, almeno nei confronti dei soci di S.r.l. (e degli accomandanti di S.a.s.), nei limiti del percepito in sede di liquidazione della società, è evidente che la mancata definizione di poste attive, per quanto illiquide e/o incerte al momento dello scioglimento dell’ente, pregiudica (o comunque limita) la loro possibilità di ottenere soddisfazione dei rispettivi crediti (salva la possibilità, anche per costoro, di agire in via risarcitoria verso il liquidatore ai sensi dell’art. 2495 c.c.).
a cura di:
Avv. Giacomo Olivati
pubblicato su:
C&S Informa, volume 14, numero 5 anno 2013