Con sentenza del 12.09.2011, n. 18600 la prima Sezione della Suprema Corte torna ad occuparsi della compromettibilità per arbitri delle controversie societarie, e lo fa escludendo - nel caso concreto - che le liti sulla revoca dell’amministratore di società di persone possano essere devolute in arbitrato. L’arrêt offre l’occasione per alcune osservazioni su una questione da sempre controversa – e tuttavia, come ben si intuisce, di cruciale rilevanza pratica – che neppure l’oramai decennale disciplina delineata per l’arbitrato c.d. societario dal D.Lgs. 5/2003 ha saputo comporre, come confermano le pronunce più recenti di legittimità e merito.
La motivazione, invero piuttosto stringata, muove da un noto precedente del 2005 della stessa sezione (Cass. Sez. I, 23 febbraio 2005, 3772) richiamato nella parte in cui afferma che le controversie in materia societaria possono, in linea generale, formare oggetto di compromesso, con esclusione di quelle che hanno ad oggetto interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci e dei terzi.
Criterio selettivo in realtà non del tutto idoneo ad indicare in via preventiva, e con sufficiente chiarezza, quali controversie possano essere devolute in arbitrato, come del resto da molto tempo rileva la dottrina, evidenziando le difficoltà cui si va incontro filtrando alla luce dell’interesse in gioco le dinamiche societarie, che geneticamente intersecano piano individuale e collettivo, a tal punto che a ben vedere risulta possibile ricondurre ogni controversia societaria nell’alveo dell’interesse collettivo. Si pensi, ad esempio, ad un’eventuale lite in ordine al pagamento dei dividendi: coinvolge il personale interesse del socio ma pure quello dei creditori sociali. Oppure alla delibera di esclusione del socio, non arbitrabile qualora dalla stessa possa derivare lo scioglimento della società. E ancora l’azione di responsabilità degli amministratori, ritenuta non arbitrabile nelle (sole) ipotesi in cui incide su interessi a valenza generale.
Di qui, l’esigenza – sottolineata dalla dottrina, e accolta dalle pronunce in esame - di evitare aberranti paradossi, circoscrivendo l’indisponibilità del diritto ai soli interessi protetti da norme inderogabili la cui violazione determini una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte.
Poste queste premesse, e richiamati alcuni risalenti precedenti (tutti antecedenti all’entrata in vigore del D.Lgs. 5/2003), la Corte deriva la non compromettibilità dell’azione di revoca per giusta causa dell’amministratore di società di persone, fondata su violazioni delle disposizioni che prescrivono la precisione e chiarezza nei bilanci, trattandosi di disposizioni preordinate alla tutela di interessi non disponibili da parte dei singoli soci.
Le argomentazioni svolte non risultano in realtà del tutto persuasive, benché le stesse trovino ampio riscontro in numerose (e recenti) pronunce di merito (che escludono la compromettibilità per arbitri delle controversie aventi ad oggetto la revoca dell’amministratore di società di persone; le controversie sullo scioglimento delle società; l’impugnazione delle delibere di approvazione del bilancio e più in generale tutte le impugnazioni delle delibere assembleari affette da nullità, e non semplicemente annullabili).
Il richiamo agli enunciati della sentenza del 2005 si palesa fin da subito poco soddisfacente, tenuto conto che quella ricostruzione, come risulta dalla stessa motivazione richiamata, muove dall’esame del dettato normativo anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. 5/2003, quest’ultimo inapplicabile ai giudizi allora pendenti. Un’analisi aderente all’attuale dettato normativo non può prescindere dalla verifica della tenuta di quelle prospettive alla luce del D.Lgs. 5/2003, che abbandonando il sinallagma tra arbitrabilità e transigibilità della controversia (relazione cristallizzata nel testo allora in vigore dell’art. 806 c.p.c.) prevede sub art. 34, che gli atti costitutivi delle società (ad esclusione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio) possano mediante clausole compromissorie prevedere la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, precisando che non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie per cui la legge prevede l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero (art. 2409 c.c. per le società che ricorrono al capitale di rischio; art. 2436, co. 4° sul ricorso agli amministratori per mancata iscrizione della modificazione dello Statuto nel Registro Imprese; art. 2446 co. 2° in tema di riduzione del capitale ad opera del giudice; art. 2487 co. 4° sulla revoca dei liquidatori, e infine le questioni di nullità del marchio). L’art. 36 poi introduce la possibilità di devolvere in arbitrato il giudizio di impugnazione delle delibere.
Invero sulla portata innovativa del D.Lgs. 5/2003 la dottrina ha manifestato fin da subito diverse perplessità, spesso alimentate dalla sostanziale delusione per avere il legislatore perso un’ottima occasione, quella di ricondurre nell’alveo di uno schema lineare (e più ampio possibile) l’estensione della compromettibilità delle controversie societarie. La legge delega prevedeva infatti la facoltà per il Governo di infrangere il tradizionale muro della disponibilità del diritto, consentendo “la possibilità che gli statuti delle società commerciali contengano clausole compromissorie, anche in deroga agli articoli 806 e 808 del codice di procedura civile, per tutte o alcune tra le controversie societarie di cui al comma 1 [diritto societario, comprese le controversie relative al trasferimento delle partecipazioni sociali ed ai patti parasociali]. Nel caso che la controversia concerna questioni che non possono formare oggetto di transazione, la clausola compromissoria dovrà riferirsi ad un arbitrato secondo diritto, restando escluso il giudizio di equità, ed il lodo sarà impugnabile anche per violazione di legge”. Erano ben note del resto al legislatore delegante le posizioni della giurisprudenza: restia all’impiego diffuso dello strumento arbitrale (tradizionalmente strutturato per definire le controversie tra due sole parti – proprio in virtù degli ordinari meccanismi di nomina del collegio arbitrale – che attribuiscono a ciascuna delle due parti il potere di nominare uno dei componenti il Collegio), ma soprattutto ancorata a criteri selettivi inidonei a precisare con sufficiente chiarezza i contorni della compromettibilità delle controversie societarie.
Il legislatore delegato non ha – come ammette la dottrina prevalente – oltrepassato quel limite della disponibilità della norma, neppure relativamente alle impugnative delle delibere (benché sul punto non manchino autorevoli opinioni contrarie). Del pari la disciplina delineata non prevede alcun addentellato idoneo a definire l’accezione di disponibilità del diritto nell’arbitrato societario.
Peraltro, come giustamente osserva larga parte della dottrina, elementi significativi – specie in ordine alla compromettibilità delle impugnazioni delle delibere assembleari -, emergono dalla riforma sostanziale del diritto societario, di cui al D.Lgs. 6/03, che ha ridefinito il rapporto tra annullabilità e nullità delle delibere, intervenendo sugli artt. 2377, 2378 e 2379 del Codice civile, e così prevedendo la generale conciliabilità delle cause di impugnativa (art. 2378, co. 4° c.c.); la possibilità di sostituire la delibera annullabile, impedendone la declaratoria di nullità (art. 2377, co. 8° c.c.); la sanatoria per omessa impugnazione nel triennio delle delibere nulle (2379, co. 1° c.c.); l’insanabilità per la sola ipotesi di illecita modificazione dell’oggetto sociale (art. 2379, co. 1° c.c.).
Mutano dunque quei presupposti su cui larga parte della giurisprudenza, ivi compresa quella sopra citata, è solita incardinare la contrapposizione tra interessi superindividuali tutelati da norme inderogabili, che conducono alla nullità della delibera, e interessi individuali, cui segue l’annullabilità; venendo meno in ogni caso l’equivalenza tra nullità, intransigibilità e indisponibilità del diritto.
E proprio tale prospettiva viene di recente valorizzata da una parte della giurisprudenza di merito, che ritiene compromettibile qualsiasi impugnativa di delibera, anche quando abbia per conseguenza la nullità, oppure violi il principio di chiarezza e precisione del bilancio, in quanto passibile di consolidazione o sanatoria col decorso di tre anni senza che venga proposta impugnazione, eccettuate soltanto le delibere che modificano l'oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili (così testualmente Trib. Milano 3 giugno 2010). In posizione analoga si rileva che il socio può rinunciare agli atti e all’azione, e può transigere la relativa controversia (Trib. Belluno 8 maggio 2008; così anche Trib. Napoli 8 marzo 2010), confermando la possibilità di affidare alla cognizione degli arbitri anche le controversie aventi ad oggetto l’invalidità delle deliberazioni di approvazione del bilancio seppure si deduca la violazione delle norme poste a presidio della verità, chiarezza e precisione del bilancio stesso.
Prospettive quindi antitetiche rispetto alla recente sentenza della Suprema Corte, che pur muovendo dall’esigenza che l’interesse superindividuale trovi tutela in una norma svincolata da qualsiasi iniziativa di parte, non sembra interessata a sviluppare quelle premesse alla luce nuovo quadro normativo sostanziale, come ora delineato dagli artt. 2377, 2378 e 2379 c.c., proponendo in definitiva una chiave di lettura che rischia di essere non più attuale.
In conclusione la disamina dei recenti precedenti giurisprudenziali brevemente accennati conferma, ancora una volta, come i confini della compromettibilità per arbitri delle controversie societarie risultino ad oggi ancora incerti, così da prestare spesso il fianco a interpretazioni contrastanti.
Non di rado potrà capitare che l’opzione arbitrale finisca in realtà per tradire la propria vocazione di strumento atto a garantire in tempi relativamente contenuti una decisione sufficientemente stabile, aprendo invece le porte a controversie sulla compromettibilità della lite insorta (e quindi in definitiva su quale sia lo strumento che le parti dovranno impiegare per far valere i propri diritti: l’arbitrato o il giudizio avanti al Tribunale).
In assenza di un tessuto normativo sufficientemente puntuale, e di un orientamento giurisprudenziale consolidato, sarà allora opportuno che i soggetti (ma più ancora i professionisti cui essi si affidano) che intendono costituire una società, o comunque introdurre nello statuto una clausola compromissoria, si adoperino per escludere in radice la competenza arbitrale per tutte quelle tipologie di controversie la cui devoluzione in arbitrato risulta, ad oggi, fortemente discussa, prevedendo la devoluzione in arbitrato di quelle sole controversie che invece risultano pacificamente ammesse.
a cura di:
Avv. Alberto Stropparo
pubblicato su:
C&S Informa, volume 12, numero 9 anno 2011