Partecipazione di una società di capitali italiana in una società residente in paese “black list”: il caso di una joint venture con sede a Dubai

Temi e Contributi
13/01/2012

Il presente scritto si focalizza sulle problematiche fiscali derivanti  dalla apertura al mercato arabo da parte di una realtà societaria italiana, realizzata istituendo una società con sede a Dubai, nel presupposto che il grande sviluppo negli anni recenti dei Paesi appartenenti agli Emirati Arabi Uniti, caratterizzato dalla crescita degli scambi commerciali ed accompagnato da importanti investimenti infrastrutturali, ha visto il coinvolgimento anche di imprese europee interessate alle opportunità offerte da questi nuovi importanti mercati.
 
Le iniziative riguardanti le numerose attività nel settore immobiliare, dei servizi, dell’alta tecnologia, della ricerca medica ed altre, sono state realizzate in molti casi mediante partnership tra enti locali e soggetti imprenditori non residenti, questi ultimi non necessariamente appartenenti alle realtà multinazionali di grandi dimensioni.
Tra le forme utilizzate molto diffusi sono stati gli accordi di joint venture tra soggetti emiratensi e imprese non residenti, con costituzione di una società nelle forme ammesse dalla legge locale ([1]), spesso integrati da patti parasociali finalizzati a mitigare i limiti posti dalla medesima normativa alla partecipazioni straniera ([2]).
Se si considera il peso complessivo dell’Italia tra i Paesi fornitori (nel 2009, secondo gli ultimi dati disponibili, all’ottavo posto tra i fornitori mondiali degli Emirati Arabi Uniti - con il 4% del totale importato dallo stato arabo, il cui fornitore principale è la Cina col 12,5% - e al terzo posto in Europa dopo Germania e Regno Unito e prima di Francia e paesi del Benelux)([3]) si può comprendere l’interesse anche delle imprese italiane all’individuazione delle modalità più opportune per entrare e gestire al meglio il proprio business in questo importante mercato.
Tenuto conto del ruolo di Dubai nello sviluppo dell’area degli Emirati (l’emirato, infatti, copre l’80% del commercio estero di tutta la federazione nel settore non-oil) si è ritenuto di sviluppare un approfondimento con riguardo agli aspetti fiscali che caratterizzano la partecipazione di una società italiana in una Joint Venture con sede in questo Emirato, nella struttura partecipativa che vede la società o ente emiratense possedere il 51% delle quote.
La disciplina fiscale delle cosiddette “imprese estere collegate” è stata, nel corso degli anni, affinata dal legislatore, alla ricerca di una modalità di imposizione del reddito e controllo anti-elusivo che collimasse, tra gli altri e in particolare, con il principio di libertà economica, senza dover per forza ricadere nella presunzione per la quale qualsiasi rapporto con imprese situate in paesi dove la tassazione è sensibilmente inferiore a quella del nostro paese, se non inesistente, fosse generato dalla volontà di nascondere all’Amministrazione Fiscale materia imponibile.
Appare quindi interessante, in primis, sintetizzare la normativa di riferimento, che rimane in ogni caso di tipo anti-elusivo, anche alla luce dei chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate, e, quindi, applicarla al caso specifico sopracitato, tra i più probabili per un’azienda italiana di medie dimensioni con prospettive di internazionalizzazione.

La normativa nazionale di riferimento
La sostanziale esenzione da imposizione sui redditi per la maggior parte delle attività ivi svolte che caratterizza gli Emirati Arabi Uniti ([4]), ha indotto molti Stati, tra i quali l’Italia, a collocare questi territori nelle liste dei Paesi a fiscalità “privilegiata”, con ciò assoggettandole operazioni intercorrenti tra residenti e soggetti emiratensi a particolari norme a contenuto antielusivo, sul presupposto che tali rapporti possano favorire la localizzazione di materia imponibile in territori soggetti ad agevolazioni impositive.([5])
Per contenere il fenomeno della delocalizzazione dei redditi in Paesi a fiscalità “privilegiata” in assenza di reali ragioni economiche, attraverso la partecipazione in società residenti in tali Paesi, in Italia è stata introdotta la cosiddetta disciplina delle Controlled Foreign Companies – CFC – e delle Foreign Participation, specifiche norme antielusive riguardanti i rapporti partecipativi tra soggetti residenti e società localizzate nei territori “black list”.
In particolare, gli artt.167 e 168 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (in seguito TUIR) prevedono la diretta imputazione in capo al soggetto residente in Italia, detentore di una partecipazione rispettivamente di controllo o di collegamento - direttamente o indirettamente, anche tramite fiduciarie o per interposta persona - in società o altro ente residente o localizzato in un paradiso fiscale (individuato dalle cosiddette “black list”([6])), dei redditi conseguiti dal soggetto controllato/collegato in misura proporzionale alla partecipazione detenuta, anche in assenza di effettiva distribuzione di dividendi, con un meccanismo di tassazione per “trasparenza”. Il soggetto residente che detiene la partecipazione dovrà, quindi, in base a questa normativa, dichiarare in Italia una quota parte di reddito afferente il soggetto estero indipendentemente dall'effettivo trasferimento di utili.
La tassazione per “trasparenza” può non essere applicata qualora sia possibile provare che in capo alla partecipata sussistono alcuni requisiti che fanno venire meno i presupposti elusivi della delocalizzazione del reddito.
Dal punto di vista della disciplina fiscale delle Foreign Partecipation, la partecipazione in una società non residente configura rapporto di collegamento quando il soggetto residente detiene una quota di partecipazione agli utili della partecipata estera in misura non inferiore al 20% (se la società non è quotata). Questo limite percentuale è riferito alla partecipazione agli utili e non alla partecipazione al capitale sociale, né ai diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria.([7])
La partecipazione nel 49% del capitale di una Joint Venture costituita in forma societaria, in assenza di accordi che attribuiscano al socio non residente la possibilità di esercitare un’”influenza dominante”([8]), si qualifica dal punto di vista della normativa civile italiana come rapporto di collegamento ai sensi dell’art. 2359 terzo comma del Codice Civile, potendo la società italiana tramite detta quota di partecipazione esercitare soltanto un’influenza notevole sulla Joint Venture.
La Joint Venture nella struttura partecipativa esaminata, dunque, può considerarsi società collegata sia ai sensi della normativa civilistica che secondo quella fiscale.
I redditi prodotti dalla stessa dovranno, perciò, essere assoggettati ad imposta in base al principio impositivo stabilito dal citato art.168 del TUIR (tassazione per “trasparenza”).

Determinazione e attestazione del reddito della collegata estera secondo il regime di “trasparenza”
Il 21 ottobre 2006 è entrato in vigore il Decreto Ministeriale (n. 268 del 7/08/2006) recante le disposizioni attuative in materia di tassazione per trasparenza dei redditi di imprese estere collegate residenti in Paesi a fiscalità “privilegiata”.


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[1] Le forme giuridiche generalmente utilizzate sono rappresentate dalle Private Stock Companies (assimilabili alle S.p.A. italiane) e dalle Limited Liability Companies (assimilabili alle nostre S.r.l.).
[2] Ad oggi l’art. 2 della Legge n. 8 del 1984 stabilisce che le società di capitali devono essere partecipate da uno o più soci emiratensi nella misura complessiva non inferiore al 51% del capitale sociale. Queste limitazioni non si applicano alle società costituite nelle cosiddette “Free Zone”, zone franche istituite da una legge federale del 2004, in cui possono essere svolte attività di intermediazione nel settore finanziario, bancario e assicurativo, e lo “straniero” è proprietario al 100%, e ha diritto, oltre alla licenza commerciale o industriale, alla completa esenzione dai dazi doganali e dal pagamento delle imposte per alcuni anni, nonché alla libertà di rimpatriare il capitale. Sono in corso delle modifiche normative volte a limitare le restrizioni esistenti in tema di partecipazione al capitale delle società. Per una sintesi delle principali caratteristiche della finanza islamica e delle possibili problematiche derivanti dai rapporti con l’ordinamento fiscale italiano si veda R. Dolce, Finanza islamica: Elementi costitutivi e possibili implicazioni fiscali nell’ordinamento italiano, in “Il Fisco” n. 21, 2008, p. 3831ss.
[3] Dal rapporto con i paesi congiunti del 2010 del Ministero degli Affari Esteri
[4] Al momento è stata ratificata l’applicazione di un’imposta progressiva soltanto a banche estere e imprese del settore petrolifero, petrolchmico e del gas.
[5] Appare comunque opportuno ricordare che, al fine di evitare la doppia tassazione e per favorire lo scambio di informazioni, Italia ed Emirati Arabi Uniti hanno stipulato un accordo nel 1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale emiratense n.278 del 4/12/1995 con decreto n.62/1995, che in Italia corrisponde alla Legge 28/08/1997, n.309. Vedi “Ratifica ed esecuzione della Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Emirati Arabi Uniti per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni fiscali, con protocollo aggiuntivo, fatta ad Abu Dhabi il 22/01/1995” (supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n.218 del 18/09/1997), entrata in vigore il 5/11/1997.
[6] Decreto Ministeriale 21/11/2001, art. 2 n. 2): “Sono altresì inclusi tra gli Stati e territori di cui all’art. 1 (Stati e territori a regime fiscale “privilegiato”): 1)…; 2) Emirati Arabi Uniti, con esclusione delle società operanti nei settori petrolifero e petrolchimico assoggettate ad imposta.” A seguito della Legge finanziaria del 2008 (Legge 24/12/2007 n.244), il regime delle società controllate e collegate estere è destinato ad una significativa evoluzione: in luogo delle vigenti “black list”, che elencano i Paesi aventi regimi fiscali “privilegiati”, sono state previste due nuove “white list” che raggrupperanno i Paesi con i quali l’Amministrazione finanziaria italiana intrattiene un adeguato scambio di informazioni e che prevedono un livello di tassazione non sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia (da emanarsi con Decreto previsto dall’art.168-bis del TUIR). Perché trovino applicazione le disposizioni riguardanti le “white list” è necessario attenderne le disposizioni attuative; fino ad allora continua ad applicarsi la disciplina antecedente la Finanziaria 2008. Con l’emanazione delle nuove “white list” potranno essere possibili importanti novità di classificazione, e Paesi oggi annoverati tra quelli a fiscalità “privilegiata” potrebbero rientrare in futuro tra quelli a fiscalità “ordinaria”. Con riguardo al graduale adeguamento di taluni Paesi “black list” agli standard internazionali in materia di scambio di informazioni, è opportuno segnalare che gli Emirati Arabi Uniti hanno siglato gli accordi sullo scambio di informazioni (cosiddetti “Tiea”) implementati dall’OCSE, come si evince dal progress report OCSE del 2/04/2009 (“a progress report on the Jurisdictions surveyed by the OECD Global Forum in implementing the internationally agreed tax standard”).
[7] Risoluzione Agenzia delle Entrate n.326 del 30/07/2008 e, tra gli altri, P. Bonarelli, Disciliplina CFC: per le Joint Venture valgono le regole delle Collegate Estere, “Fiscalità Internazionale” n. 6/2008.
[8]  L’art. 2359 del Codice Civile inquadra tra le ipotesi di controllo i casi di possesso di voti sufficienti per esercitare una influenza dominante in sede di assemblea ordinaria e l’ipotesi esercizio di influenza dominante in virtù di particolari vincoli contrattuali.

a cura di: 

Dott. Gianfranco Peracin

pubblicato su:

Il Fisco, fasciolo 2, numero 2 2012