Alcune considerazioni sul nuovo rito dei licenziamenti

Temi e Contributi
28/01/2013

Con l’intervento contenuto nell’art. 1 della L. 28 giugno 2012 n. 92, commi da 48 a 68, il Legislatore ha introdotto un nuovo procedimento speciale che trova applicazione per alcune controversie relative ai licenziamenti, ferma l’applicazione del collaudato rito lavoro in tutte le altre ipotesi in cui non entra in gioco una delle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (c.d. Statuo dei Lavoratori).

Il nuovo modello del processo del lavoro prevede una prima fase sommaria, c.d. urgente (ma non cautelare), introdotta con ricorso al Giudice del lavoro e caratterizzata da celerità e informalità, che si chiude con un’ordinanza opponibile avanti al Tribunale che l’ha pronunciata, così avviando un giudizio di primo grado a cognizione piena, in larga parte calcante la disciplina del rito ordinario lavoro, cui potrà seguire la fase di appello, denominato reclamo, pure essa in larga parte informata alla disciplina del rito laburistico, e da ultimo l’eventuale approdo in Cassazione, secondo la disciplina ordinaria. 

Discostandosi dalla pur recente tendenza razionalizzatrice – di cui è espressione il D.Lgs. n. 150/2011, c.d. “decreto sulla semplificazione dei riti”, che individua, quali modelli processuali di riferimento, il rito ordinario di cognizione, quello sommario di cognizione e quello del lavoro – il legislatore della Riforma appronta un nuovo procedimento che, muovendo dal procedimento forgiato per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 Statuto del Lavoratori, si avvicina per certi versi al rito sommario di cognizione (di cui agli artt. 702 bis e ss. c.p.c.), e per altri al procedimento cautelare uniforme (artt. 669 bis e ss c.p.c.).

Ne esce, in buona sostanza, un nuovo modello processuale, il cui d.n.a. non sembra facilmente consentire il rinvio alle elaborazioni già articolate da dottrina e giurisprudenza in relazione ai singoli modelli citati, dovendosi piuttosto – volta per volta – procedere ad una ricostruzione sul campo della piena compatibilità delle soluzioni individuate. Il contenuto invero “minimal” della nuova disciplina - specie per quanto attiene alle previsioni che riguardano la fase di giudizio in primo grado a cognizione piena, nonché quella d’appello – necessita in ogni caso del rinvio, per tutto quanto non espressamente regolato, alle norme dell’ordinario rito lavoro, che rimane – nelle fasi a cognizione piena – l’ossatura portante.

Il nuovo rito, si è detto, trova applicazione per le sole controversie aventi ad oggetto l’applicazione delle tutele previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, e tale peculiarità – come evidenziato da larga parte dei commentatori della novella – corrobora la prospettiva di un approccio sinallagmatico del legislatore, che da un lato, sul piano sostanziale, ha operato le note riduzioni alle tradizionali tutele sostanziali previste per i licenziamenti illegittimi, e dall’altro – sul versante processuale – ha inteso introdurre, quale vero e proprio pendant, un’accelerazione (almeno, ma forse solo, sulla carta) del percorso attraverso il quale quelle tutele (ed in particolare la reintegra del dipendente invalidamente licenziato) possono trovare riconoscimento.

Più in particolare, quanto al campo di applicazione delle norme in esame, sono ricondotte al nuovo rito – a prescindere dal requisito dimensionale dell’impresa - le fattispecie riconducibili al licenziamento discriminatorio, quello irrogato in violazione di norme di protezione, oppure determinato da motivo illecito, ovvero inefficace perché intimato in forma orale. Qualora poi sussistano i requisiti dimensionali previsti dai commi 8 e 9 dell’art. 18 (più di 15 lavoratori o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo) il rito in esame troverà applicazione anche per le ipotesi di cui ai commi da 4 a 7 dell’art. 18, e cioè con riferimento ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo soggettivo ed oggettivo, nonché a quelli (in)efficaci per vizio di forma. Il rito speciale trova applicazione anche in relazione ai licenziamenti collettivi.

Ne restano invece escluse le controversie sottoposte al regime di cui all’art. 8 L. n. 604/1966, e così il requisito dimensionale finisce per essere vero e proprio spartiacque tra lavoratori che dovranno incardinare le proprie censure secondo le modalità previste dal nuovo rito, in apparenza più veloce, e coloro i quali – pur lamentando circostanze ampiamente sovrapponibili – dovranno pazientare un po’ di più, e adeguarsi alle consuete scansioni del rito ordinario del lavoro. Il discrimine, a ben vedere, va ricondotto – almeno in apparenza – al fatto che il lavoratore agisca ex art 18 per la reintegra ovvero ex art. 8 L. n. 604/1966 per l’indennità/risarcimento: solo al primo il legislatore riconosce una corsia più celere per la tutela dei propri diritti, ancorché, come è stato autorevolmente osservato in dottrina, oggi non vi sia più – nell’ambito dell’art. 18 – un diritto indefettibile alla reintegrazione.

La circoscritta applicabilità del rito speciale alle sole ipotesi tutelate dall’art. 18 pone invero alcune difficoltà all’interprete della norma, e rischia nei fatti di causare riverberi opposti rispetto a quelli perseguiti dal legislatore, che all’evidenza ha inteso riservare il nuovo rito ad una cerchia più “ristretta” di controversie, per non inflazionarne l’impiego e garantirne l’efficienza anche in ragione dell’organizzazione attuale delle Sezioni Lavoro.

Sembra invece di poter osservare, in via prognostica, che la censurata bipartizione finirà per contribuire all’incremento di ulteriore attività processuale. Basti pensare alle frequenti querelle che si incentrano sul requisito dimensionale quale presupposto per l’accesso alla tutela dell’art. 18, che suggeriscono al lavoratore (su cui incombe l’onere della prova), di promuovere prudenzialmente, in via subordinata, domanda di tutela ex art. 8 L. 604/1966.

In tali casi potrà capitare (assai di frequente) che - all’esito della fase introdotta con il rito speciale -venga disattesa, in quanto infondata, l’invocata tutela ex art. 18, difettando i requisiti dimensionali previsti dal co. 8 dello stesso articolo. La novella in esame non prevede la possibilità che in tal caso il Giudice della fase urgente possa decidere sulla domanda promossa in subordine, il cui esame – si badi – non porterebbe di fatto alcuna dilatazione del thema decidendum (e così in ultima analisi nessun appesantimento dell’attività demandata a Giudice e parti), vertendo la subordinata sulle medesime questioni allegate in via principale, e trovando quale unico elemento differenziatore il requisito dimensionale. A rigore, pertanto, rigettata la domanda ex art. 18, quella promossa in subordine dovrebbe essere dichiarata improcedibile.

Per evitare l’aberrante prospettiva che, rigettata la domanda ex art. 18 St. lavoratori incardinata (obbligatoriamente) nel procedimento urgente, il lavoratore corra il rischio di vedersi opporre l’intervenuta decadenza prevista dall’art. 6, co. 2°, L. 604/1966 in relazione alla domanda ex art. 8 L. 604/1966 da promuoversi (fatalmente) nel procedimento ordinario, i primi commentatori della riforma si sono sforzati di individuare diverse ipotesi ricostruttive potenzialmente idonee a ad evitare l’impasse.

E così, secondo un primo – e invero non del tutto persuasivo - orientamento, che muove dall’indicazione contenuta nel comma 48, per cui con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 (ossia le domande ex art. 18 St. lavoratori) salvo che “siano fondate sugli identici fatti costitutivi”, si dovrebbe ammettere che il Giudice della fase sommaria, rigettata la domanda ex art. 18, possa pronunciarsi sulla subordinata (che, come già detto, si tratta in definitiva della stessa domanda che pur viene azionata sotto un diverso profilo), quantomeno nelle ipotesi in cui l’istruttoria relativa alla sussistenza di giusta causa o giustificato motivo risulti già compiuta. Peraltro, seguendo il percorso logico delineato da questa stessa dottrina, si dovrebbe escludere invece che per l’ipotesi in cui difetti il requisito dimensionale, ma il lavoratore non abbia formulato alcuna domanda in via subordinata, il giudice possa – nell’alveo della fase sommaria – accogliere la domanda ex art. 8 L. 604/1966, non residuando altra via che quella di rigettare nel merito la domanda promossa, e disporre il mutamento del rito da speciale a lavoro per la trattazione e decisione della domanda sotto il diverso profilo giuridico.

Altra parte della dottrina esclude invece che il dettato in esame consenta al giudice adito una conversione del rito nei confronti della domanda subordinata d’indennizzo per la tutela obbligatoria, ritenendo preferibile optare per la improcedibilità della stessa, cui conseguirebbe la cessazione della pendenza della subordinata e la possibilità di riproporre quella stessa domanda all’interno dell’eventuale fase di opposizione avverso l’ordinanza che chiude la fase sommaria; e ciò sia nel caso in cui quell’opposizione venga promossa dal lavoratore, sia che venga attivata dal datore di lavoro che contesta il requisito dimensionale.

Altri ancora disinnescano il pericolo derivante dalla prospettiva sopra descritta muovendo da alcune considerazioni intorno alla natura dichiarativa dell’azione di impugnativa del licenziamento, che (in effetti) mal si concilia con la previsione di un termine di decadenza, così da doversi preferibilmente riqualificare il termine di 180 giorni per l’impugnazione giudiziale quale termine di prescrizione, cosicché, l’impugnativa promossa nelle forme del rito speciale – ma ritenuta inammissibile – consentirebbe in ogni caso di approfittare della sospensione del termine prescrizionale; di qui la possibilità – a quel punto – di riproporre l’impugnativa nelle modalità previste dal rito ordinario.

Sempre in relazione al perimetro di applicazione del nuovo rito giova riprendere l’inciso contenuto nel co. 48, e di cui si è detto poco sopra, che estende il rito in esame anche alle domande che “siano fondate sugli identici fatti costitutivi”. Si tratta invero di una previsione piuttosto sfuggente, che richiede all’interprete - interessato a darne un qualche contenuto - un approccio non del tutto rigoroso; e infatti l’inciso in esame, preso alla lettera, risulterebbe privo di alcuna valenza, dovendosi concludere che non vi possono essere domande diverse da quelle aventi ad oggetto le tutele dell’art. 18 fondate su identici fatti costitutivi. Di qui parte della dottrina propone un’interpretazione “ortopedica” della norma in esame, idonea ad estendere al rito speciale tutte quelle domande che pur ricomprendendo i fatti costitutivi dell’impugnativa di licenziamento, comprendano altresì fatti ulteriori, pur nel rispetto di un equo contemperamento degli interessi in gioco: da un lato l’esigenza di evitare lo spreco di attività processuale, dall’altro quello di non “appesantire” eccessivamente la fase sommaria, così da snaturare le peculiarità perseguite dal legislatore. In tale prospettiva la dottrina, sia pur con diversi distinguo, ammette – come già sopra anticipato – le domande formulate in subordine in relazione alla tutela ex art. 8 L. 604 del 1966, nonché quelle di risarcimento dei danni ulteriori rispetto a quelle coperte dalle indennità risarcitorie dell’art. 18; la domanda subordinata di condanna al pagamento di quanto spettante qualora non sia disposta la reintegrazione (indennità sostitutiva del preavviso, t.f.r.). Maggiori dubbi vengono evidenziati in relazione alla possibilità di promuovere domanda di condanna al pagamento di differenze retributive, neppure se derivanti da diversa qualificazione del rapporto.

Da ultimo, le norme in esame prevedono la devoluzione nelle forme del rito speciale dell’impugnativa di licenziamento anche quando “devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro”, e così in tutti quei casi in cui il lavoratore censura che il rapporto di lavoro, formalmente non subordinato, o subordinato a termine, o di somministrazione, o ancora privo di alcuna veste formale, venga accertato quale rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Qui invero, come acutamente ha osservato una dottrina, il fulcro della controversia non è l’illegittimità del recesso, bensì la correttezza della veste formale data al rapporto, di talché quelle censure – che pure hanno sempre ad oggetto l’illegittimità del recesso, assumendo la qualificazione del rapporto il ruolo di questione (e non di domanda) – sembrerebbero bisognose di una trattazione necessariamente più approfondita rispetto a quella che si ripromette di offrire il nuovo rito nella fase sommaria. Di qui la ragione per cui diverse Sezioni Lavoro potrebbero preferire un’interpretazione piuttosto stringata dell’inciso in commento, “rinviando” – in presenza di questioni di non pronta soluzione - ogni accertamento sulla qualificazione del rapporto all’eventuale e successivo giudizio ordinario.

A conclusione di queste brevi, e di certo non esaustive, considerazioni preme riprendere l’evidenza che funge in ultima analisi da leit motive dell’espositiva, ossia la considerazione per cui la declarata volontà del Legislatore, di delineare un percorso rapido per assicurare, a chiunque perda il lavoro, tutela in tempi brevi, non sembra trovare piena corrispondenza nelle previsioni in concreto delineate, in parte tese alla riformulazione di un rito, quello del lavoro, che pur perfettibile rappresenta tutt’ora un’esperienza assolutamente positiva nell’ambito del contenzioso civile, e che a ben vedere avrebbe dovuto più opportunamente beneficiare di nuove risorse piuttosto che di un nuovo rito speciale.

a cura di: 

Avv. Alberto Stropparo

pubblicato su:

C&S Informa, volume 13, numero 8 anno 2012